Palermo. L`olivo intriso di memoria

Via D´Amelio, si rinnova ogni 19 del mese la Scorta per la memoria.

 

Dall’asfalto si è generata nuova vita. Una bomba fatta esplodere per distruggere, è riuscita solamente a disperdere nell’aria tanti semi. Ed il vento che continua a sollevarli, a rimetterli in circolo, siamo tutti noi. Pensiamo al soffione, l’infruttescenza del Tarassaco, dal significato simbolico ed evocativo. Tutti noi da bambini abbiamo soffiato quella sfera misteriosa ed osservato, con la gioia e la spensieratezza tipica dell’infanzia, quei semi spiccare il volo, appesi ad una sorta di paracadute. E con essi, volavano pensieri verso mondi lontani, sogni e speranze. Avvertivamo che la separazione di quei semi non rappresentasse qualcosa di negativo. Il soffione appunto, legato all’idea del distacco e del viaggio, simboleggia forza, fiducia e speranza. La stessa speranza che è rinata da quell’orribile cratere dove esplose l’autobomba, il 19 luglio 1992 alle 16.58. Quel luogo è diventato un simbolo, un patrimonio di tutti, un punto nevralgico nella mappa della memoria che va salvaguardato. Troppo spesso viene soffocato dalle auto parcheggiate tutto intorno. Chi lo visita utilizzando tutti i sensi, e magari anche il sesto, percepisce qualcosa di indescrivibile solo a parole.

Secondi, minuti, ore sotto i rami dell’olivo e si avvia un processo, quasi una reazione chimica che fa ripercorrere trent’anni di vita. Di vita, appunto, e non di morte. Si percepiscono sorrisi, risate, battute, complicità e responsabilità. Chi ci va una volta, e sente tutto questo, desidera tornare e ritornare, perché è un punto catalizzatore di energia positiva. Infatti, tutto quell’amore e la dedizione del magistrato Paolo Borsellino per il suo lavoro, per la famiglia, per la città che desiderava migliorare e l’amore di quei giovani ragazzi che pur sapendo di rischiare la vita sono rimasti al suo fianco per proteggerlo, si è traformato in un energia raggiante e incontenibile.

Una bomba non hanno ancora inventato – ha sottolineato in varie occasioni Salvatore Borsellino – una bomba che distrugga l´amore”.

Quell’olivo proveniente da Betlemme è stato fortemente voluto da Maria Pia Lepanto, madre del giudice ucciso. Grazie alla sua intuizione è diventato un luogo vivo di memoria, visitato da molti giovani, scolaresche e persone da ogni parte d’Italia e del mondo, dove l’albero è simbolo di Pace, di rigenerazione, di solidarietà, di impegno civile e di giustizia tra i popoli. Lo scorso 16 aprile ricorreva il 74°compleanno di Agostino Catalano, un’gente della scorta del Quarto Savona 21, in servizio quel giorno insieme, tra gli altri, ad Antonio Vullo, unico superstite. Intorno all’albero si sono radunati i familiari, fratelli e sorelle, alcuni attivisti e simpatizzanti del Movimento Agende Rosse, e in collegamento da remoto con Salvatore Borsellino e Angelo Garavaglia Fragetta, coofondatore del Movimento delle Agende Rosse e autore dell´inchiesta indipendente sul furto dell´agenda rossa di Paolo Borsellino.

Molti sono ancora i punti oscuri, dopo 31 anni, sulle responsabilità che ruotano intorno alle stragi, quella di Punta Raisi e quella di Via D’Amelio, molti i depistaggi e ancora troppe le delusioni.

Nel 2021, dopo l’ennesimo danneggiamento alla targa commemorativa, posta alla base dell’albero, è stata installata una telecamera di sorveglianza, posizionata sotto il Castello Utveggio, e creata la Scorta per la memoria. Il presidio nello stesso anno è stato intenso, organizzato dal 1°maggio fino a tutto luglio, per poi proseguire ogni 19 del mese. All’indirizzo www.viadamelio.it si può accedere alla telecamera live.

Devo ringraziare mia madre, ha detto il fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, che ha voluto piantare l’albero in quella buca scavata dall’esplosione, in quella terra bagnata dal sangue mescolato di PaoloAgostinoClaudio, EmanuelaVincenzo e Eddy, perchè diventasse un luogo di Pace e di speranza piuttosto che un luogo che ricordi morte, violenza e sopraffazione. Ha trascorso gli ultimi cinque anni della sua vita affacciata a quel balcone in via D’Amelio a vedere i tanti giovani che venivano a vedere l’albero, come se andassero a visitare suo figlio. E sono convinto che se si affacciasse oggi sarebbe contenta di questa festa di compleanno. Quell’albero è il legame con Palermo. Tutte le mattine accendo il computer e lo guardo; è la maniera di essere ancora a Palermo, anche se ormai, purtroppo, sono lontano. Non vado mai al cimitero. Al cimitero non c’è niente, c’è quello che resta, se ancora resta qualcosa dei loro corpi, ma lì, dove c’è l’albero, quei ragazzi continuano a vivere. Quando poggio la mia mano su un ramo, come facciamo in tanti, è come se sentissi scorrere il sangue ancora, come se quello non fosse un ramo, ma il braccio di Paolo. Grazie a mia madre – prosegue Salvatore Borsellino – posso essere insieme ai parenti di quei ragazzi che hanno sacrificato la loro vita sapendo che fare la scorta a Paolo significava rischiare la morte. Eppure sono rimasti, non sono andati via, erano lì in quel momento, lo hanno difeso con i loro corpi e sono stati fatti a pezzi. Ma non voglio ricordare questo. Voglio ricordare Paolo (Borsellino), Agostino (Catalano), Claudio (Traina), Emanuela (Loi), Vincenzo (Li Muli), Walter Eddy (Cosina). Voglio ricordarli come se fossero vivi, anzi sono vivi. Vivono lì, in quell’albero.

La scorta della memoria si rinnova ogni 19 del mese, non perché sono morti, perché hanno vissuto per una vita più giusta.

L´invito per ogni 19 del mese e esteso a tutti.

 
di di-Vagando oltreconfine Inviato su Attualità

Primo Maggio, la festa “ai” lavoratori. Proteste nelle piazze.

Siamo come tanti carcerati, affacciati a finestre chiuse. La maggior parte dei giornali e le televisioni, di proprietà dei signori che hanno potere di controllo, dicono solo ciò che i “padroni universali” vogliono che voi sappiate, niente di più.
Non è una passeggiata, è una lotta politica vera e propria. Potere e ricchezze sono in mano ad un gruppo di duecento-trecento persone al massimo, le cui decisioni influenzano il destino di tutti.
La ricchezza è aumentata in termini finanziari, ma non è assolutamente proporzionale alla qualità della vita e dei servizi. Tutto sta peggiorando e stanno comprando i nostri beni. Cos’altro sono le privatizzazioni se non questa appropriazione indebita di beni materiali che dovrebbero rimanere pubblici! Perché l’Occidente ha raggiunto quest’apice di benessere? Perché ha saccheggiato, rapinato il resto del mondo per secoli. Loro, i “padroni del mondo” hanno rapinato, e noi siamo stati in silenzio. Non facciamoci illusioni, non viviamo in un mondo giusto, non viviamo in democrazia ma in un mondo guidato da una oligarchia che ha un potere sterminato. Chi sono? Sono i proprietari delle Banche mondiali che decidono tutto, che si riuniscono segretamente e decidono di trasferire miliardi da un posto all’altro, di produrre denaro dal nulla. Inutile dire che quel denaro arricchirà solo loro e noi non lo vedremo mai in tutta la nostra vita. Ora però cosa succede, i padroni del mondo non hanno più il controllo del mondo stesso, ecco perché sono diventati aggressivi. Sono nati dei giganti, degli Stati potenti che si possono difendere e che non accetteranno più di essere rapinati, come ad esempio la Cina, la Russia ed altri. È finita la globalizzazione americana, ecco perché siamo in guerra.

Questi sono stralci di un lungo discorso del giornalista Giulietto Chiesa ad una conferenza tenutasi a Genova, il 13 gennaio del 2017. Ci si chiedeva, e già dal 2014, se fossimo vicini ad una Terza guerra mondiale, e la discussione è ancora aperta. Si può condividere o meno la sua descrizione dello stato del mondo, certo è che aiuta ad ampliare il raggio di osservazione.

Secondo Chiesa la Russia è stata sottoposta in questi anni ad un attacco concentrico sulle sue frontiere (e sostenere ciò non significa essere filorussi). La Nato – sempre secondo Giulietto Chiesa – è strumento di guerra e noi italiani in quanto nella Nato, siamo vincolati ad entrare in guerra, quando lo decideranno loro, non noi. Noi non decidiamo nulla. Il punto è che noi, popolo, siamo in tanti, siamo miliardi di individui, e dovremmo unirci per contare qualcosa. Il nostro mantra dovrebbe essere “Non ve lo lasciamo fare, se non ce lo chiedete prima”, da applicare a qualsiasi cosa: dalle decisioni del governo, al rifacimento di una strada, alla destinazione di risorse pubbliche, alla privatizzazione di una biblioteca o di un ospedale. Nella Costituzione tedesca, ha riportato Chiesa nel medesimo incontro, c’è scritta una cosa importante che noi non abbiamo: il cittadino ha il diritto di difendersi contro i poteri quando i poteri violano le leggi dello Stato.

Si avvicina il Primo Maggio, la festa dei lavoratori, che ricorda tutte le lotte per conquistare i diritti degli stessi, e Giorgia Meloni ha scelto proprio questa data simbolo per indire una riunione del Consiglio dei Ministri. Sferra un colpo voluto e non casuale, a suo dire d’esempio, che ha però un sapore amaro, di provocazione e sfregio. Dopo aver aggirato in qualche modo il 25 aprile, festa di liberazione dal nazi-fascismo, su cui si basa la nostra Costituzione e su cui la destra ora al governo ha giurato, cercano di metter mano su un’altra festa che in fondo non sentono scorrere nelle loro vene. Che ne sanno loro, i privilegiati secondo la definizione della stessa Meloni, di lotte, di precariato, di difficoltà del vivere. Questo governo ha contrastato in ogni modo e con ogni mezzo possibile le politiche a favore delle fasce più deboli, come se povertà e difficoltà fossero una colpa, favorendo ricchi, lobby ed evasori fiscali.

Il Primo Maggio quest’anno assume quindi una valenza ancor più importante. Scendere in piazza e rivendicare l’aumento dei salari per contrastare il carovita alle stelle ed il NO alla guerra, un no secco e incondizionato, è diventato di vitale importanza per difendere la nostra storia e la nostra stessa vita. L’Unione Sindacale di Base (USB) è impegnata a promuovere manifestazioni e iniziative in tante piazze del Paese. USB lancia un appello ed Invita tutti, cittadini, lavoratori, organizzazioni sindacali, associazioni, collettivi e comitati ad unirsi nelle piazze per gridare ancora una volta “Abbassate le armi, alzate i salari”. Vogliamo Pace e salario (adeguato) – scrivono sul comunicato – contro la guerra e l’economia del padronato, le multinazionali e la speculazione finanziaria che strangolano le popolazioni di tutto il mondo. Per aderire all’appello inviare una mail a padova@usb.it

In particolare, a Vicenza, ci sarà una grande appuntamento alle ore 15 tra piazza Mercato e via Ramiro Fabioni. Ci sarà un corteo lungo Viale della Pace fino alla Caserma Ederle e ritorno. Seguirà l’assemblea a microfono aperto e musica.

Fermiamo questa guerra, le cui cause vanno ben al di là di ciò che ci viene raccontato.





Mimmo Lucano all’ateneo di Palermo. “Migrazioni e Decreto Sicurezza”.

 

      L’idea di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, era semplice e meravigliosa. Un’idea nata spontaneamente, naturale conseguenza all’evolversi degli eventi e delle circostanze, priva di premeditazione e assolutamente scevra da qualsiasi smania di potere. Facevano da sfondo, nel suo operare, ideali e valori insiti nella sua persona, tra cui il rispetto per la dignità umana, valore comune anche tra i relatori di rilievo riunitisi intorno al tavolo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, lo scorso 31 ottobre. Tema dell’incontro: “Migrazioni e Decreto Sicurezza”.

     Lucano aveva davanti agli occhi l’emergenza sociale della sua terra, il problema dello spopolamento e, in qualità di sindaco, voleva dare il suo contributo per migliorare la situazione, dare nuove speranze di fronte al silenzio e alla rassegnazione sociale.

     L’intuizione di vedere gli immigrati come una risorsa e non come un problema da combattere, consentì di trasformare Riace in una piccola comunità globale. Si trattava degli stessi migranti che il Nord Italia trattava come se fossero rifiuti tossici. Non solo riuscì quindi a risolvere le problematiche interne alla cittadina, facendo confluire nuova linfa vitale alle attività locali, favorendo il recupero di antichi mestieri e molto altro, ma diede un piccolo contributo alla risoluzione delle urgenze mondiali.

     “E’ stato un impulso – ha detto Mimmo Lucano nel corso del suo intervento – un tentativo di rigenerazione sociale, l’apertura delle scuole, di un ambulatorio medico, della fattoria didattica … tutti elementi che mi rendevano orgoglioso di essere il sindaco di quella piccola comunità. Non rincorrevo notorietà o clamori mediatici, per anni abbiamo operato così. Questo fenomeno dell’immigrazione, che in Europa veniva così allontanato e visto con sospetto, per noi diventava invece, al contrario, un’opportunità. Riace ha creato una speranza ed ha attirato l’attenzione mondiale di antropologi, studiosi, filmaker e turisti solidali, quindi mai avrei pensato che un fatto virtuoso si trasformasse in una questione giudiziaria”.

     Evidentemente le idee semplici, quelle che applicate alla realtà quotidiana funzionano, che sciolgono come neve al sole problemi e contrasti, che uniscono popoli e culture differenti, fanno paura ai poteri forti. Fanno paura a quei poteri che alle soluzioni possibili frappongono, per necessità proprie, la “fabbrica della paura”. Quando i popoli si uniscono, riscoprono una grande forza; è molto meglio, per il potere in auge, frammentare questo flusso di energia positiva, smantellarla, mettere gli uni contro gli altri per manipolare meglio un certo tipo di “massa”. Propaganda continua, disprezzo per i più deboli, costruzione di nemici funzionali alla strategia politica, contraddistinguono il clima recente. Verso quale deriva stiamo andando? Fortunatamente c’è chi non si volta dall’altra parte ed ha il coraggio di lottare a viso scoperto. Tutte le personalità che erano presenti all’incontro voluto dall’Associazione Peppino Impastato sono caratterizzate proprio da questo impegno, e legate da un filo invisibile.

     Sono intervenuti: Raffaele Crocco, direttore di Associazione 46° Parallelo; Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea; Fulvio Vassallo Paleologo di Associazione Diritti e Frontiere; Umberto Santino del Centro Documentazione Peppino Impastato e No Mafia Memorial; coordinati da Pino Dicevi, segretario dell’Associazione Peppino Impastato di Cinisi. Presente anche Luisa Impastato, nipote di Peppino e presidentessa di Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato di Cinisi. Il suo discorso finale è riuscito a riassumere in maniera chiara ed incisiva l’impegno ed il valore di ognuno ed il coinvolgimento emozionale.

     “Dobbiamo avere il coraggio di guardare la realtà in faccia: siamo una minoranza nel panorama e nel dibattito politico – ha sottolineato l’ex sindaco di Riace. Come diceva Umberto Santino, noi non abbiamo la forza per trasformare quello che vorremmo diventasse un “diritto”, un’idea di società differente. C’è un filo che ci unisce tra noi qui stasera, un legame forte basato sui temi dell’antimafia e dell’immigrazione. Un filo della memoria che non si spezzerà mai. Penso che razzismo, fascismo e mafia, siano facce della stessa medaglia. Ecco perché siamo qui, per cercare di comprendere il senso di quanto accade, per cercare di avvicinarci il più possibile alla realtà e alla verità, che spesso sono stravolte”.

     Umberto Santino, del Centro Documentazione Peppino Impastato e No Mafia Memorial, sempre propositivo, ha lanciato qualche spunto: “… seguire il processo di Mimmo Lucano è un compito che ci assegniamo, almeno per tentare di fare controinformazione. Dovremmo costruire una rete, cercare di organizzare una nuova “resistenza”, far diventare sensibilità comune queste nostre riflessioni, lanciare una campagna informativa, costruire nel territorio reti e forme di presenza in grado di produrre non soltanto analisi ma anche alternative”.

     “Quando ho cominciato a fare il sindaco – ha proseguito Mimmo Lucano – in una realtà come Riace, nella Calabria ionica che è dominata da famiglie mafiose del territorio, mi legavo a Peppino Impastato perché mi dava coraggio. Pensavo c’è stato e c’è ancora. (…) Siamo delle persone legate da una storia, una comune volontà di avere una speranza. Altrimenti che senso avrebbe il nostro impegno?

     Tutto funzionava bene a Riace, tanto che ne hanno fatto un Film tempestivamente bloccato poco prima del lancio in Rai. Il modello Riace disturbava evidentemente qualche forza politica in ascesa. C’è stata una precisa volontà, quasi scientifica come ha dello lo stesso Lucano, di smantellare tutto ciò che quella piccola comunità stava insegnando al mondo intero: la solidarietà. Si è passati da un periodo di emergenze, in cui faceva comodo chiamare il sindaco di Riace per convincerlo ad accettare grandi numeri di rifugiati – “per me non era un obbedire a Mario Morcone, ha detto Lucano, perché comunque coincideva con la mia “mission” – fino ad arrivare all’utilizzo strategico di ogni fatto per incriminare Mimmo Lucano e, soprattutto svilire, svuotare e criminalizzare l’idea di solidarietà stessa.

     “Mi sono trovato dentro questo processo – ha proseguito Lucano –  io che volevo semplicemente fare il sindaco per il mio territorio. Non immaginavo che mi sarei dovuto occupare dell’immigrazione, cercavo invece di capire come contrastare l’emigrazione, come creare le condizioni per una prospettiva di futuro. Riace fa parte delle cosiddette aree interne, e sono aree fragili della Calabria, dove c’è stato un forte spopolamento per motivi economici. C’è la presenza della criminalità che occupa gli spazi, è pervasiva, entra dentro le dinamiche dell’agire delle istituzioni, che ti priva della speranza di immaginare un futuro possibile. Riace è capitata dentro questo processo inconsapevolmente perché l’ex Ministro Salvini mi ha accusato di voler fare una sostituzione etnica. Io semplicemente ho detto che qui non c’era nessuno e molto probabilmente il responsabile sarà stato il vento che ha portato qui il primo veliero. I primi ad arrivare furono i kurdi. Poi hanno imparato la rotta ed è stato un susseguirsi. Qual è l’alternativa all’assistere passivamente all’oblio delle nostre comunità, dei piccoli comuni della Calabria con 3 o 5 abitanti e con le case completamente vuote? Questo era anche il destino di Riace che invece, paradossalmente, è stata rigenerata dall’arrivo di queste persone (dagli scarti umani come sono stati definiti). E’ stata una cosa spontanea e non premeditata. E’ prevalsa la sensibilità umana, è prevalso l’impulso che non ti fa rimanere a guardare quando le persone sbarcano. Ho sempre ribadito: finché ci sono case, ben venga”.

     “Una figura che ha avuto un ruolo, secondo me, centrale nella vicenda giudiziaria – riferisce ancora Lucano – è il prefetto di Reggio Calabria Michele di Bari. Guarda caso è stato proprio Salvini a volerlo a Roma, a ricoprire il ruolo che era di Mario Morcone. Salvini era venuto a San Ferdinando per fare propaganda e parlare di ruspe, a collegarsi culturalmente – qui lo dico assumendomi tutte le responsabilità – a dare nuova linfa culturale alle dinamiche delle Mafie”. Sanno benissimo le Mafie e scelgono così chi seguire ed appoggiare.

     “L’ex prefetto di Riace ha avuto quindi un ruolo centrale per demolire quel processo non neutrale – Riace non è mai stata neutrale, l’ho ribadito sempre che si legava ad una dimensione che una volta si chiamava Sinistra Parlamentare – dove c’è un livello di condivisione di quelli che sono i percorsi degli ultimi. Noi ci affidiamo ad una mission politica che non appartiene ai partiti della Democrazia Cristiana, che per anni ha garantito un sistema di corruzione legato al condizionamento delle Mafie, come è stato per esempio Forza Italia e come oggi è la Lega.

     I valori del cristianesimo e quelli della Lega o del Fascismo sono incompatibili, è inutile che ci giriamo intorno. Si parla di amore e di odio”.

Annalisa Martinelli

(pubblicato su Agoravox, 6/11/2019)

Pepe Mujica e la battaglia culturale

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Pepe Mujica

In maniera amabile e con fermezza, l’ex Presidente dell’Uruguay, José, detto Pepe, Mujica ha catalizzato l’attenzione del numerosissimo pubblico, nonostante gli animi si fossero scaldati prima del suo arrivo. L’angusta aula Magna della Facoltà di Economia di Ferrara, non poteva certo contenere la folla accorsa lo scorso 9 novembre per ascoltarlo, ed era prevedibile visti gli esiti del suo tour in Italia. Ciò che ha fatto sollevare a gran voce la protesta, nella scalinata della sede in via Voltapaletto, è il fatto che la sala risultasse già piena un’ora prima dell’apertura ufficiale al pubblico. Rabbia e delusione, per chi aveva chiesto un giorno di ferie per seguire l’evento, per chi arrivava da lontano e per il fatto di sentirsi presi in giro da un’organizzazione poco accorta. Il Mega screen allestito all’ingresso e quelli in altre due sale della sede staccata in via degli Adelardi, hanno sopperito in qualche modo, anche se non è come percepire l’energia che si genera in presenza. L’evento, dal titolo “Economia e società. Il tempo non va sprecato”, è stato organizzato in occasione dell’uscita del libro “Una pecora nera al potere. Pepe Mujica la politica della gente”.

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Moltissimi giovani ad ascoltare Pepe Mujica, personaggio di rilievo internazionale che con i suoi 80 anni vissuti intensamente sa raggiungere i cuori, senza troppi fronzoli. “Mi sento come i Rolling Stones – ha detto Pepe dopo il caloroso saluto iniziale rivolto a tutti, anche a quelli rimasti fuori – sono vecchio ma attraggo molti giovani.”

Carismatico, diretto, colto, Mujica ha parlato anche attraverso i gesti ed i suoi occhi, vivaci e scuri, che trasmettevano calma e nello stesso tempo lasciavano trasparire il fuoco che gli brucia dentro: l’insofferenza verso le ingiustizie sociali e le differenze di classe.

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L’ex Presidente dell’Uruguay è stato l’unico politico al mondo che ha saputo rinunciare al superfluo, nel totale rispetto della povera gente. E non a parole, con i fatti. Ha rinunciato a 90 % del suo stipendio ed è rimasto a vivere nella sua fattoria con la moglie, anziché trasferirsi nel prestigioso Palazzo nel centro di Montevideo. I veri poveri, sostiene giustamente Mujica, sono quelli che non si accontentano mai, che lavorano affannosamente per mantenere un certo stile di vita, per accumulare beni e ricchezza.

Uno dei problemi del mondo in cui viviamo, ribadisce, è il gigantesco fenomeno della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.

La società capitalista ha generato la spirale produzioni/consumi, facendo nascere una moltitudine di prodotti assolutamente superflui. Ovviamente scatta poi un’operazione di propaganda occulta per indurci a comprare; è un qualcosa che ci domina in maniera soft. Questo è il consumismo. E’ molto importante sapere chi siamo, cosa abbiamo dentro al nostro “Hard disk”, cosa riceviamo dall’esterno, dall’arte e dalla storia.

Non commettete l’errore della mia generazione – ha aggiunto Pepe Mujica – noi siamo stati ingenui. Abbiamo sottovalutato la cultura. Dalla battaglia culturale si valuta la forza di un sistema. Dobbiamo lottare per cambiare questo mondo. E si comincia cambiando noi stessi. Dobbiamo cercare di non farci influenzare dalla dittatura anche se blanda e subdola del mercato. Possiamo vivere bene lo stesso, anche se non compriamo una maglia con il marchio del coccodrillo; non dobbiamo farci derubare, perché non la compriamo con il denaro ma con il tempo che abbiamo speso/impiegato per procurarci il denaro stesso.

Dobbiamo lottare per il tempo libero, perché dobbiamo avere il tempo di coltivare gli affetti, le uniche cose che ci danno la felicità. L’uomo è un animale sociale, abbiamo bisogno delle azioni umane, non si può vivere da soli, dobbiamo trovare il tempo per i nostri figli, per non cadere nel paradosso del non vogliamo manchi loro qualcosa e poi manchiamo proprio noi. Dobbiamo lottare per questo. Anche se i conti del passato si pagano sempre, dobbiamo saperci rialzare e ricominciare.

L’economia ha fatto un enorme errore quando si è separata dalla filosofia e dall’etica.

Ci ritroviamo con il numero di suicidi che supera quello delle vittime per omicidio; l’unico animale che si suicida è l’uomo e questo è innaturale.

La felicità si consegue con poche cose.

Alla domanda sull’esito delle elezioni americane, Pepe Mujica ha risposto: “Mi producono questa reazione: Aiuto!

Pubblicato su Agoravox Italia 13/11/2016

http://www.agoravox.it/Pepe-Mujica-e-la-battaglia.html

 

 

“Rumore di acque”. Non solo numeri

 

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Rumore di acque, secondo evento della rassegna Uno sguardo dal cielo – Spettacolo di Marco Martinelli, con Alessandro Renda (Teatro delle Albe di Ravenna)- Giovedì 20 ottobre, ore 21, al Centro Teatro Universitario di Ferrara.

Spettacolo di forte impatto emozionale, che nasce da un’idea di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, e con il patrocinio di Amnesty International. L’intento è quello di puntare lo sguardo e provocare una profonda riflessione su un dramma ormai ventennale: quello dei disperati del mare, i gommoni, gli scafisti, i naufragi, le migliaia di morti. Esseri umani, non solo numeri.
Una realtà, triste, ormai quotidiana, che scorre davanti ai nostri occhi senza più impressionarci.
La forza attorica di Alessandro Renda dà voce alla figura del Generale che con durezza accoglie le migliaia di spiriti dispersi in mare, per conto di un crudele Ministero dell’Inferno.
Quel generale monologante – scrive Martinelli nelle sue note di regia – è in realtà un ‘medium’, è attraversato da un popolo di voci e di volti che lo assediano, il popolo degli annegati, quello che neanche la sua indole burocratica riesce a ridurre a mera statistica. Sono gli scomparsi che si rendono presenti attraverso di lui: lui malgrado. Il generale è solo sulla sua isola sperduta nel Mediterraneo, ma è attorniato dai morti che non lo lasciano in pace, che lo tormentano, che gridano per essere ‘ricordati’ non solo come numeri”.
Il primo racconto di traversata che ho ascoltato a Mazara, nell’autunno del 2008 – leggiamo ancora nelle note di regia – fu quello di una minuta, coraggiosa donna tunisina: timida, col suo italiano spezzettato tra i denti, faceva fatica ad alzare gli occhi. Cambiai il suo nome in Jasmine, trasfigurando la sua storia e mantenendone gli aspetti essenziali. E’ l’unica storia, tra quelle evocate dal Generale, che riguarda non un annegato o uno scomparso, ma una vita che si salva. Si salva davvero? Nelle grinfie del vecchio italiano che, dice lui, “è sempre piaciuto”? Alla fine quando le chiesi se l’avrebbe rifatto quel viaggio, mi rispose decisa di no. Che se ne sarebbe rimasta a Tunisi”.
Che cos’è la cultura, che cos’è il teatro, da Sofocle a Brecht, se non un cerchio ideale in cui l’umanità riflette sulla violenza e sulle contraddizioni drammatiche che la lacerano? Questo a mio avviso significa prendere sul serio le parole ‘cultura’ e ‘teatro’, affrontando i nodi ‘capitali’ della propria epoca. E tra questi la tragedia dei migranti e dei profughi: in relazione a questi ‘sacrifici umani’, a questa ecatombe senza fine, cosa può fare il nostro Vecchio Continente? L’Europa è davanti a una sfida che mette in gioco la sua stessa esistenza: deve dimostrare di essere all’altezza di questo momento storico, decisivo al fine di delineare la propria identità: un’Europa delle merci e dei burocrati, un’Europa impaurita in balia dei populismi arroganti, o un’Europa dei valori veri e della solidarietà come fondamento indispensabile di civiltà?

Ingresso gratuito fino a esaurimento dei posti disponibili, con prenotazione obbligatoria tramite mail a conversazionilutto@unife.it o chiamando il numero 349/3593164.

(Foto di Claire Pasquier)

Senza verità non c’è democrazia – analisi di una sconfitta

Perché perse il Fronte Popolare nel 1948? Per colpa dei traditori della libertà? O in seguito a una ben precisa strategia della tensione accompagnata da una propaganda aggressiva, decisa a livello non solo italiano ma atlantico? La sconfitta non fu forse il frutto della strage di Portella della Ginestra seguita al buon risultato elettorale delle sinistre alle amministrative del 1947 e alle regionali in Sicilia?Trattative e negoziazioni Stato-mafia, servizi segreti italiani e americani, destra eversiva. Gli ingredienti sono sempre gli stessi. Personaggi oscuri che attraversano la storia repubblicana, trame mai chiarite del tutto ma di cui ormai si sa abbastanza per un’analisi storica.

Sorgente: Senza verità non c’è democrazia – analisi di una sconfitta

Il racconto-flamenco di Eva Yerbabuena

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Silenzio. Squarci di luce nell’oscurità e gesti senza tempo. Nell’aria, le vibrazioni dell’animo.

Sul palcoscenico della vita, sotto una luce diretta e impietosa, si leva un grido che reclama dal profondo la propria solitudine, l’intimo rapporto con il “sé”. AY! È il grido universale, simbolo del flamenco, impregnato di dolore, rabbia ma anche di gioia, che irrompe dal di dentro, dal sordo abisso, verso l’esterno. Come un’onda, . travolge tutti in un vortice, si fa racconto, accorcia le distanze, unisce, accomuna, fino a sfociare in una corale, un’interazione costante di cante, chitarra e baile. E a questo punto, la luce si fa summa di vibrazioni. L’atmosfera, un’intreccio di voci, suoni e movimenti.

I ritmi travolgenti dell’attimo presente, scardinano la sequenza del tempo, rallentano il passo lasciando spazio al ricordo, allo scavo interiore, a quel lento e segreto legame con la memoria.

A concludere la stagione di danza 2015-16 del Teatro Comunale di Ferrara, lo scorso 14 aprile, un’ospite d’eccezione, una delle più grandi “bailaores” del flamenco internazionale:Eva Yerbabuena.

Lo spettacolo, AY!, che l’ha vista impegnata come coreografa e danzatrice, è andato a sostituire quello di Israel Galvan, costretto ad interrompere la tournée per motivi di salute. Ad accompagnare la Yerbabuena, un eccellente ensamble di 5 musicisti (Paco Jarana alla chitarra, oltre che alla direzione musicale; Vladimir Dimitrenco al violino, Antonio Coronel alle percussioni, al canto Enrique El Estremeño e José Valencia). Disegno luci, affidato a Fernando Martin e la creazione dei costumi a Lopez De Santos.

La ballerina, originaria di Granada, respira il flamenco fin da bambina e ne restituisce la tradizione assimilata attraverso un linguaggio personale ed incisivo. Nell’ottobre 1998, si esibisce a Wuppertal (Germania) come artista ospite per la coreografa Pina Bausch, in occasione del 25º anniversario della sua compagnia, ballando insieme a Marie-Claude Pietragalla e Ana Laguna.

Tra i vari premi ricevuti, vale la pena ricordare “Flamenco Hoy”, come Migliore Ballerina, conferitole per tre anni di seguito dal 1999 al 2001, ed il “Premio Nacional de Danza”concesso dallo Stato spagnolo nel 2001.

«Nella mia più intima verità – dice Eva Yerbabuena – sento i “palos” del flamenco, attraverso la danza riempio il mio corpo di libertà e ballo per l’essenza della purezza,… con la certezza dell’atemporalità di questa che è una delle quattro danze madri dell’umanità».

“Me perderé: una sombra, un sueño… La incierta sensación de haber vivido el segundo siguiente sin ahora.”

Alcune anticipazioni sul Festival di Danza Contemporanea in programma per l’autunno 2016: 15 ottobre, Constanza Macras/Dory Park on Fire (prima nazionale); 4 novembre, Killel Kogan, we love arabs obscene gesture (prima nazionale); 30 novembre, Junior Balletto di Toscana, Romeo e Giulietta; 3 dicembre, Ballet National de Marseille/Emio Greco-Pieter C. Scholten, Passione.

Biglietti in vendita dal mese di settembre, in biglietteria e sul sito:

www.teatrocomunaleferrara.it

(Foto di Ruben Martin)

(Pubblicato su Agoravox Italia – 18-04-2016 e La Nuova Ferrara 26/04/2016))

Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

La prossima settimana arriverà in Italia lo scrittore siriano Khaled Khalifa, che era stato ospite del nostro Paese cinque anni fa, in occasione della pubblicazione in italiano del suo romanzo L’el…

Sorgente: Lo scrittore siriano Khaled Khalifa a Venezia, Napoli, Roma, Firenze e Milano

“Laika” di Ascanio Celestini: un povero Cristo, umano tra gli esseri umani

Ascanio Celestini -

Ascanio Celestini. Ritratto Roma, 2013

A San Giorgio delle Pertiche è di scena Ascanio Celestini. Con la sua nuova creazione, dal titolo Laika, l’autore e interprete romano ci accompagna per mano in un monolocale di periferia, con vista sul parcheggio di un supermercato. Ci abita Gesù, che dice di essere stato mandato più volte nel mondo. Questa volta non si è incarnato per salvare l’umanità, ma solo per osservarla. Ironia della sorte,  Dio lo ha fatto nascere cieco; con lui c’è uno dei dodici apostoli, Pietro, il cui vero nome è Simone, che trascorre la maggior parte del tempo fuori casa ad operare concretamente, si arrangia a fare piccoli lavori, fa la spesa e gli fa da supporto. La radice ebraica del nome Simone è Shama, che significa ascoltare, per cui Simon Pietro è colui che ascolta; è anche l’uomo del popolo, quello che non capisce bene cosa gli accade intorno, affrettato nelle sue reazioni, il più materiale, e per questo viene chiamato Kefa, che in aramaico significa pietra: è lui che paga il tributo, lui che rinnegherà tre volte, lui che darà vita alla Chiesa.

Questo Gesù contemporaneo è interessato solo a ciò che accade fuori, non vuole nessun altro che lo visiti in casa. Dalla sua finestra si vede ogni giorno un uomo che chiede l’elemosina e di notte dorme tra i cartoni. Gesù è interessato a lui, a quel barbone che è un nordafricano scappato dal proprio Paese e arrivato in Italia con un barcone, non per salvarlo dalla sua povertà, ma per fargliela vivere allegramente.

Lo spettacolo è in programma venerdì 12 febbraio, ore 21, al Cinema Teatro Giardino di San Giorgio delle Pertiche, in provincia di Padova.

Con la crisi delle ideologie nate dall’illuminismo e concretizzatesi soprattutto nel ‘900 – spiega Celestini –  anche le religioni (in quanto visioni totalizzanti e dunque ideologiche) hanno subito un contraccolpo. L’ebraismo ha trovato una patria mescolando le incertezze religiose alle certezze nazionaliste, anche l’islamismo è diventata una religione di lotta e di governo, mentre il cristianesimo si trova a vivere la sua fase più contraddittoria con due Papi viventi uno accanto all’altro, ma con due volti contrastanti: il rigido teologo e il prete di strada. A distanza di un paio di millenni ci troviamo ora a rivivere le incertezze del cristianesimo delle origini, frutto dell’ebraismo e seme dell’islam. Queste incertezze vorrei che passassero in maniera obbligatoriamente grottesca e ironica nel personaggio che porterò in scena: un povero Cristo che può agire nel mondo solo come essere umano tra gli esseri umani. Uno che sente la responsabilità, ma anche il peso di essere solo sul cuor della terra: vuoi vedere che la trinità è una balla e alla fine salterà fuori che Dio sono soltanto io?”

Michael Moore a Trump: siamo tutti fratelli, siamo tutti musulmani.

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Repentina l’iniziativa del regista e scrittore americano Michael Moore contro la dichiarazione di Donald Trump.

Il candidato alle primarie repubblicane, ha proposto di vietare l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani. In tutta risposta Moore si è fatto fotografare davanti alla Trump Tower con un cartello “We are all Muslim” – Siamo tutti musulmani. “Così come siamo tutti messicani, cattolici ed ebrei, bianchi, neri e tutte le sfumature intermedie“, ha specificato nella sua pagina ufficiale. “Sono cresciuto con l’idea che siamo tutti fratelli e sorelle, senza distinzione di razza, credo o colore della pelle, il che significa che, se deve essere imposto un divieto ai musulmani, lo stesso divieto deve essere imposto a me e a chiunque altro. Siamo tutti musulmani.

Di seguito la lettera scritta da Michael Moore.

 

Caro Donald Trump,

forse ricorderà (è molto probabile dal momento che ha “una memoria di ferro”), che ci incontrammo nel novembre del 1998 dietro le quinte di un programma televisivo pomeridiano al quale fummo invitati. Tuttavia, un attimo prima di andare in onda, un produttore mi chiamò in disparte per dirmi che lei si sentiva un po’ “agitato” di apparire in onda con me. Mi ha detto che lei non voleva essere “fatto a pezzi” e voleva che l’assicurassi che non mi sarei scagliato contro di lei.

“Non penserà mica che voglia aggredirlo e metterlo alle strette?”, chiesi perplesso. “No – rispose la produttrice – È solo un po’ nervoso”. “Eh? Non l’ho mai incontrato prima d’ora. Non ha alcun motivo di essere teso”, dissi. “Non so nemmeno molto sul suo conto, oltre il fatto che gli piace ribattezzare le cose sul suo nome. Se vuole posso parlarci io”. Come ricorderà, è quello che feci. Mi avvicinai e mi presentai. “La produttrice mi ha detto che è preoccupato per quello che potrei dire o fare durante il programma. Senza offesa, ma la conosco a malapena. Sono del Michigan. La prego di non preoccuparsi, andremo d’accordo!”.

Sembrava sollevato, poi si avvicinò a me e mi disse: “Non volevo avere rogne e volevo solo assicurarmi che noi due potessimo andare d’accordo, che non mi prendesse di mira per qualche assurdo motivo”. “Prenderla di mira”? Ho pensato, ma dove siamo, in terza elementare? Sono rimasto sconvolto da come un sedicente uomo duro del Queens si trasformasse in un gattino spaventato. Siamo andati in onda e non è successo nulla di sconveniente. Non le ho tirato i capelli, non le ho messo la gomma da masticare sulla sedia. “Che inetto”, pensai mentre lasciavo gli studi televisivi.

Eccoci qui nel 2015 e, come tante altre persone bianche arrabbiate, lei è spaventato da uno spauracchio; uno spauracchio costituito da tutti i musulmani. Non solo quelli che hanno ucciso, ma tutti i mussulmani. Fortunatamente, Donald, lei e i suoi sostenitori non assomigliate più al volto degli Stati Uniti moderni. Non siamo una nazione di bianchi arrabbiati. Ecco un dato statistico che le farà rizzare i capelli: l’ottantuno percento di coloro che andranno alle urne l’anno prossimo per eleggere il presidente è costituito da donne, cittadini di colore, ragazzi tra i 18 e i 35 anni. Ovvero, né da persone come lei, né da coloro che la vorrebbero a capo del Paese. Per questo, in preda alla disperazione e alla follia, può anche proporre il divieto d’accesso in questo Paese a tutti i musulmani.

Sono cresciuto con l’idea che siamo tutti fratelli e sorelle, senza distinzione di razza, credo o colore della pelle, il che significa che, se deve essere imposto un divieto ai musulmani, lo stesso divieto deve essere imposto a me e a chiunque altro. Siamo tutti musulmani.

Così come siamo tutti messicani, siamo tutti cattolici ed ebrei, bianchi e neri e tutte le altre sfumature intermedie. Siamo tutti figli di Dio (o della natura o di qualsiasi altra cosa in cui creda), parte della famiglia umana e questo non può essere cambiato di una virgola per effetto di quello che dice o che fa. Se non le piacciono queste regole statunitensi, allora se ne può andare in castigo in uno dei suoi grattacieli a meditare su quello che ha detto. Poi ci lascia in pace, così eleggiamo un vero presidente, che sia forte e compassionevole allo stesso tempo, o abbastanza forte da non apparire lamentoso e spaventato da un tizio con un cappellino da baseball seduto accanto a lui sul divano di uno show televisivo.

Lei non è così forte, Donny, e sono contento di aver avuto modo di costatare la sua vera essenza tanti anni fa. Siamo tutti musulmani. Se ne faccia una ragione.

Distinti saluti,
Michael Moore

PS: chiedo a tutti di leggere questa lettera e di firmare la seguente dichiarazione: “Siamo tutti musulmani” e di condividere una foto con un cartello che dica “SIAMO TUTTI MUSULMANI” su Twitter, Facebook o Instagram utilizzando l’hashtag #WeAreAllMuslim.

Pubblicherò tutte le foto sul mio sito e poi gliele invierò, Sig. Trump.

Si unisca a noi.

(testo pubblicato per la prima volta su The Huffington Post U.S. tradotto poi da Valentina Mecca)